IL FUTURO DI GIULIA

Il futuro di Giulia si sviluppa in due parti: la prima tra il 1990 e il 1993 e la seconda nel 2005, futuro all’epoca di pubblicazione del romanzo (1995).

Sebbene la narrazione sia in terza persona, essa è intramezzata da alcuni monologhi in cui i personaggi si raccontano. In questo estratto troverete i soli monologhi.

Il primo è quello di Teresa, che racconterà la sua vita ad Andrea in una situazione particolare. Gli altri personaggi, i veri protagonisti del romanzo, sono Andrea, sua moglie Laura e l’amico Ugo. Giulia è la figlia di Andrea e Laura, che a sua volta, all’età di tre anni, descrive, con parole sue, una settimana “tipo” della propria vita.

I quattro monologhi degli adulti rappresentano i diversi percorsi ed i diversi approdi, negli anni novanta, di alcuni rappresentanti della “meglio gioventù” nata negli anni cinquanta.

estratto da  IL FUTURO DI GIULIA

TERESA

Sono nata in una cittadina della Sicilia orientale e frequentavo il liceo scientifico, mentre Salvatore, il mio fidanzato, era già laureato in giurisprudenza e studiava da notaio. Quando, tra un anno, avrò preso il diploma ci sposeremo e ci trasferiremo a Palermo, gli dicevo.

Mi consideravo una persona normale e avrei dovuto essere felice perché, come diceva sempre mio padre, non mi è mai mancato niente.

E invece ero inquieta, proprio come se mi mancasse qualcosa. Le mie sorelle dicevano che ero un po’ pazza. È che tutte le volte che passavo per la piazza non riuscivo a non guardare il gruppo dei ragazzi con le moto e i capelli lunghi. Ce n’era uno, in particolare, con un fisico tutto muscoli sotto il giubbotto di pelle, e un’aria così spavalda e sicura di sé! Lo detestavo: tanto Salvatore mi rispetta, pur essendo il mio fidanzato, quanto questo mi spoglia con gli occhi quando mi guarda, pensavo.

È una cosa che non sopporto, dicevo. Certe volte non riuscivo ad addormentarmi, pensando alla faccia volgare di quel tipo. E quando poi mi addormentavo, spessissimo mi capitava di sognarlo.

Fuggimmo una sera all’inizio dell’estate. Era il 1977, ricordo che avevo appena compiuto diciotto anni. Lasciai un messaggio con poche spiegazioni per i miei genitori e nessuna spiegazione a Salvatore. Cosa avrei potuto dirgli? Che mi ero fatta incantare da un sogno di avventura? O che mi ero spaventata dalla prospettiva di una vita senza sogni?

Davide aveva dei soldi da parte, ma eravamo intenzionati a stare via molto, e non avevamo fretta, per cui scegliemmo il modo di viaggiare più economico.

Raggiunta la Grecia con il traghetto da Brindisi, tirammo dritto su Istambul, ove ogni due o tre giorni, quando si riempiva, partiva un «magic bus» per Kabul. Si trattava di vecchi autobus a due piani dismessi, guidati da fricchettoni europei e generalmente carichi di europei fricchettoni.

Il viaggio durò una decina di giorni, e prevedeva anche il pernottamento a bordo sui sedili, per lo più sfondati.

Io, che non avevo mai messo il naso fuori dalla Sicilia, mi sentivo come Alice nel paese delle meraviglie, e guardavo incantata l’uomo che mi avrebbe protetto dal mondo, e i monti della Turchia dal finestrino.

Della Persia non serbo un ricordo gradevole. Quando facemmo sosta a Teheran scendemmo per sgranchirci la gambe, e subito noi ragazze fummo circondate da un’orda di uomini: contrariamente alle loro donne avevamo il viso scoperto, e non solo quello, dato il caldo infernale. Più o meno protette dagli altri ragazzi europei, ci avventurammo alla ricerca di un bar o qualcosa di simile, ma riuscimmo a trovare solo un grosso recipiente di plastica pieno d’acqua, con un bicchiere attaccato ad una cordicella. Vedendo che gli altri non mostravano di porsi alcun problema, bevvi anch’io, giusto in tempo per vedere il sistema di approvvigionamento. Subito dopo, infatti, arrivarono due uomini che trascinavano un blocco di ghiaccio lurido su cenci di tela di iuta che scaraventarono nel recipiente. La cosa mi servì a capire che in quel viaggio, e nella vita, mi sarei dovuta abituare a ben altro.

Dopo tanto deserto, le montagne dell’Afganistan mi confortarono. A Kabul ci fermammo una decina di giorni in un alberghetto frequentato prevalentemente da europei, messi un po’ male. Capii che la maggior parte di loro era andata lì per rintronarsi di droga. Davide mi disse che non c’era niente di male a provare, e allora un giorno mangiai una pallina d’oppio. Ricordo ancora la sgradevole sensazione di una cosa appiccicosa e oleosa in bocca. Vomitai per tre giorni.

Raggiungemmo il confine con il Pakistan con mezzi locali. A Peshawar volevamo prendere un treno, e ci dissero che gli uomini dovevano stare separati dalle donne. Fortunatamente c’erano con noi due ragazze che avevamo conosciuto nel magic bus, e accettammo di essere rinchiuse, come su un carro bestiame, in una carrozza del treno, simile – molto in peggio – a quelle di legno di terza classe che quando ero bambina venivano utilizzate per i treni locali. Ricordo come un incubo un assalto notturno di maschi bramosi, allontanati da pseudo-controllori.

Non migliore fu la soluzione del bus che prendemmo, dopo, per raggiungere Lahore, al confine con l’India. Anche qui Davide e io dovemmo viaggiare separati: le donne stavano in una gabbia in fondo al bus, e io, unica non interamente coperta di veli, mi sentivo completamente nuda, con mille occhi neri addosso dei maschi attaccati alla rete. Davide sembrava indifferente, e io apprezzai la sua diversità da Salvatore, che mai avrebbe sopportato una situazione simile. In realtà proprio in quella gabbia mi resi conto di quanto la mia vita fosse cambiata in meno di un mese.

L’India mi apparve come il paradiso. Il verde, ma soprattutto la gente, per come era vestita e come si comportava, completamente diversa da quella dei paesi mussulmani che avevo appena attraversato. Non che non ci fosse miseria. Non avrei mai immaginato che potesse esistere tanta povertà, le vacche in mezzo alla strada, storpi, malati, persino un morto sul marciapiede. Però finalmente i volti scoperti, turbanti colorati, scimmiette, e gli uomini che non ti rompevano se non per chiederti l’elemosina.

Ci fermammo un po’ a Srinagar, la città dei laghi, in Kashmir. Un posto pieno di verde, bellissimo, in una pianura circondata dai monti dell’Himalaya, dove si viveva su case galleggianti, e si andava a fare la spesa in barca.

Davide si procurava facilmente il fumo, che io iniziai a provare. Ce ne stavamo intere giornate stravaccati in un bellissimo prato all’inglese, ai piedi di una collina sormontata da un grosso edificio coloniale. Un giorno vidi passare davanti a me un uomo senza il naso, vestito di bianco. Sgranai gli occhi per vedere meglio, cominciando a preoccuparmi che fosse l’effetto della droga. Non ce l’aveva proprio. Solo quando vedemmo un’altra persona vestita allo stesso modo con il viso devastato da bubboni chiedemmo spiegazioni, e ci dissero che quell’edificio era un lebbrosario.

Rimanemmo a Bombay solo due giorni, perché era nostra intenzione raggiungere Goa quanto prima. La città era già allora impressionante, con un livello di miseria superiore al resto dell’India.

Pioveva a dirotto, ma sembrava normale, in agosto, con i monsoni. La mattina della partenza scendemmo con le nostre borse e fermammo un carro con un cavallo per raggiungere la stazione. Continuava a piovere, le strade erano allagate, e l’acqua saliva paurosamente, fino a quando il cavallo non riuscì più ad andare avanti. Scesi dal carro. L’acqua ci arrivava alla vita. Era difficilissimo proseguire, perché i miei zoccoli di legno venivano a galla. Me li tolsi, ma si camminava senza vedere in fondo all’acqua torbida, inciampando nei marciapiedi.

Le poche macchine che c’erano, tutte millecento blu e nere, erano ferme, quasi completamente sommerse. Riuscimmo non so come ad arrivare alla stazione, ma era tutto bloccato, e i treni non partivano. Ci fermammo lì, sconsolati, a guardare i ragazzini che si tuffavano sulle strade. Per loro, che vivevano in una disgrazia perenne, quell’ennesima disgrazia diventava solo un’occasione di divertimento.

Arrivammo comunque a Goa con un bus, qualche giorno dopo quella storica alluvione, e ci sistemammo in una specie di capanna vicino al mare. Il bagno era una baracca di legno, con il pavimento sopraelevato e il buco al centro, che finiva direttamente sul terreno.

Mi ero ormai già perfettamente adattata alla vita da hippy.

Mi sentivo un’altra persona: quella che avevo lasciato in Sicilia mi sembrava una lontana parente, che facevo fatica a ricordare.

Ogni tanto, però – lo confesso – mi capitava di domandarmi all’improvviso che cosa stessi facendo in quel posto. Davide mi sembrava un estraneo e le cose che mi circondavano allucinazioni. Poi mi calmavo e tornavo ad accettare tutto come normale, anche i maialini neri che aspettavano sotto il baracchino del bagno per mangiarsi i miei escrementi.

Negli anni che passai in India mi rifiutai di farmi di roba forte. Fumavo solo, e Davide e i ragazzi mi prendevano un po’ in giro, chiamandomi madre Teresa di Calcutta. Davide invece cominciò a darci dentro con l’ eroina – o forse lo faceva anche in Italia, anche se non me lo aveva detto – e si riduceva sempre peggio.

Quando, una volta, stava per mettermi le mani addosso gli dissi se ti azzardi a farlo un’altra volta non mi vedi più.

C’era una ragazza del Quebec con cui avevo fatto amicizia, mi sembra si chiamasse Celine, e ogni tanto parlavamo. Lei era stufa dell’India, e mi diceva ho delle amiche a Londra che lavorano e fanno una vita quasi normale. Ho gli indirizzi e se tu volessi potremmo andarci insieme. Almeno non dipenderesti sempre dal tuo uomo. L’idea mi allettò: ormai conoscevo abbastanza il mondo e l’inglese per potermi arrangiare, e poi mi serviva per scuotere un po’ Davide, che si stava lasciando troppo andare.

Non ebbi il coraggio di dirglielo a voce, e gli scrissi una lunga lettera. Io ti amo, però se ti riduci ad una larva umana non me la sento di stare con te. Vado in Gran Bretagna con Celine, e ti lascio dei recapiti dove mi puoi rintracciare, se decidi di raggiungermi.

Trovammo un ostello a Kensington, gestito da tre hippy sui quaranta, ove i primi tempi lavorai: ci accordammo che in cambio dell’alloggio gratuito, giù nel basemant, avrei dato una mano a fare le camere. Celine dopo una decina di giorni si innamorò perdutamente di un musicista giamaicano e decise di seguirlo nei caraibi, regalandomi il suo amato giaccone a scacchi rossi e neri che aveva gelosamente conservato in fondo allo zaino durante tutto il periodo dell’India: tanto laggiù a me non servirà, disse abbracciandomi.

L’ostello era un ex caserma fatiscente, con un ambiente molto simpatico: quelli che ci abitavano erano tutti ragazzi giovani, prevalentemente hippy, che vivevano con il sussidio di disoccupazione governativo; non era difficile ottenerlo, e ti aiutava a sopravvivere.

Io iniziai a fare la cameriera cambiando padrone due o tre volte, senza avere mai difficoltà a trovare un posto.

Non so come, Davide mi ritrovò. Mi giurò che aveva smesso di farsi, e che aveva già trovato un lavoro.

Riprovammo. Si adattò all’ambiente dell’ostello, e vivemmo per un bel periodo in una dimensione comunitaria in piena libertà, con assoluta noncuranza di ogni imposizione esterna.

Un giorno, improvvisamente, Davide mi disse che dovevamo partire, senza spiegarmi il motivo. Ho voglia di cambiare aria, si limitò a dire. Accettai volentieri di trasferirmi in Spagna, pensando al sole, al mare, al caldo.

A Barcellona trovai da lavorare come segretaria. Con lo stipendio che prendevo ci potemmo permettere di dividere un appartamento in affitto con altre due persone, conosciute in viaggio, che come noi volevano vivere per un po’ in Catalogna. Lo trovammo vicino alla chiesa del Carmen, in un quartiere povero ma dignitoso.

Volevo vivere una vita normale, abitare una casa con oggetti miei, pagare le bollette, passeggiare per il Parque Guell e per le Ramblas, andare fuori a cena a mangiare la paella, magari facendoci solo qualche acido il sabato, per essere già perfettamente lucidi di lunedì.

Davide però finiva sempre a comperare roba a Plaza del Rey, e se trovava un lavoro vero non resisteva per più di una settimana.

Quando rimasi incinta di Sara gli dissi la voglio tenere, la voglio far nascere in Italia, con te o senza di te perché sono stufa della vita da vagabonda e di avere un uomo irresponsabile. Si mostrò ragionevole, e mi pose solo due condizioni: quella di non tornare in Sicilia e quella di aiutarlo a uscirne fuori.

Ci trasferimmo qui, trovando questa casa grazie a un prete, e provammo a vivere come una normalissima famiglia di immigrati siciliani.

In realtà lui si procurava soldi in tutti i modi, anche in quelli più schifosi. Iscritto nella lista degli ex-tossici che avevano diritto alla dose giornaliera di metadone, andava tutte le mattine all’ospedale a prenderla per poi rivenderla subito fuori, come facevano tutti. Quando quelli alla fine se ne accorsero, e lo costrinsero a prenderla in bocca davanti a loro, lui non fece altro che portarsi dietro un bicchierino: il metadone con lo sputo trovava lo stesso i suoi clienti, anche se aveva un prezzo di mercato un po’ più basso di quello puro.

Poi ha cominciato a bere, e ad alzare la voce. Picchiarmi non lo ha fatto mai, ma certe volte mi è sembrato che potesse perdere il controllo anche con me e con la bambina. Dentro ha un’anima violenta: l’ho visto in India massacrare di botte uno che lo voleva fregare dandogli della roba tagliata con la stricnina. Non lo amo da tempo, ma non saprei dove fuggire. E poi comunque mi troverebbe dovunque. Doveva rappresentare la mia libertà, e si è trasformato nella mia prigione. Certe volte vorrei solo che fosse morto, e allora mi immagino che la mia vita potrebbe ricominciare da capo, come se potessi tornare indietro anche con gli anni.

ANDREA

Conobbi Ugo il primo giorno di scuola, il primo anno di liceo. Eravamo capitati di banco insieme perché i nostri cognomi erano prossimi, e scoprimmo ben presto molte affinità: ritardo nello sviluppo fisico, senza traccia del minimo pelo sui visi infantili; stesso segno zodiacale; comune grande passione per Nembo Kid – antico nome di Superman – e, in misura minore, Batman, Mandrake e l’Uomo Mascherato; stessi gusti sulle donne, sia per quelle famose sia per quelle presenti nella classe; stessi problemi rispetto a queste ultime, che ci attraversavano con lo sguardo a causa, evidentemente, del nostro aspetto non propriamente adulto.

Diventammo amici come succede solo a quell’età, e lo rimanemmo negli anni a venire, competendo sugli scacchi e sugli amori, scambiandoci confidenze, dischi dei Gufi e di Fabrizio De Andrè e libri di fantascienza.

Lui era più bello di me, più intelligente e più ricco.

L’ultimo requisito, considerato da ambedue un difetto, non compensava gli altri due, ma talvolta li condizionava fortemente. Ricordo ancora, quando avevamo 15 o 16 anni, che fece una festa di compleanno invitando i suoi amici più frivoli – quelli con le moto potenti che frequentavano il bar più esclusivo della città – e le ragazze più belle e stupide che tanto mi piacevano. Non invitò me dicendomi, poi, mi vergognavo di loro, credevo che li avresti disprezzati. In realtà li avevo solo invidiati, e avevo pensato che fosse stato lui a vergognarsi di me.

Subito dopo il mondo fu travolto da cambiamenti inimmaginabili.

In quel tempo l’unico Telegiornale, la polizia, l’esercito, i carabinieri, la magistratura, la maggior parte dei professori, quasi tutta la stampa, i testi scolastici, il buon senso comune, erano l’espressione di un’Italietta post-fascista in niente diversa da quella di prima della guerra.

E le fabbriche erano come caserme, con gli operai che non contavano niente e lavoravano sei giorni la settimana per una paga di fame. Non appena il vento della rivolta cominciò a soffiare anche nella nostra cittadina, Ugo e io ci ritrovammo, in modo del tutto naturale, dalla stessa parte con i migliori della nostra generazione. Dalla stessa parte. Si fa per dire. In realtà eravamo divisissimi, secondo il tradizionale copione della sinistra.

Spontaneista!-Stalinista!-Operaista!-Revisionista!

Nel corso delle riunioni periodiche della cellula della nostra piccola organizzazione molto tempo era dedicato allo studio dei sacri testi, e alla dimostrazione di come fosse errata «la linea» degli altri gruppi. Probabilmente era vero, ma la nostra giusta linea non ci avrebbe portato molto più in là.

Sicuramente neanche allora, nel nostro microcosmo, essa riuscì a modificare i rapporti di forza tra i diversi gruppi che si proponevano come concorrenti del grande Partito.

Soprattutto non riuscì ad incidere minimamente sul consenso della destinataria naturale dei nostri elaborati teorici: la classe.

Quando, sbarbatelli, ci presentavamo davanti alle fabbriche a distribuire volantini con cui si spiegava l’ineluttabilità della rivoluzione, la sua necessaria dimensione internazionale, l’inaffidabilità del partito ex operaio retto da una casta di burocrati, nella migliore delle ipotesi ricevevamo paterne pacche sul coppino, accompagnate dalla fatidica frase: ma vai a lavorare!

Ed i sei operai rivoluzionari della città, patrimonio esclusivo di un’altra organizzazione, alla resa dei conti, nel quotidiano, non erano migliori degli odiati borghesi.

Una sera in cui Ugo altri compagni ed io andammo al cinema con uno di loro, Ernesto, dalle mani grandi e operose (di lui dicevano, in termini un po’ meno aulici, che aveva cinque dita come cinque cazzi) questi, di fronte alle generose forme poco coperte dell’avvenente protagonista femminile non trovò di meglio che dire: e poi se uno torna a casa e butta la moglie giù dalla finestra lo arrestano pure!

Ugo e io con uno sguardo convenimmo che l’uomo nuovo di cui parlava il grande «Che» era molto lontano dai suoi prototipi viventi.

Continuammo comunque a credere fortemente nell’idea, che rafforzavamo leggendo esclusivamente saggi politici.

Voi rimanete dei cattolici, ci diceva infervorato Ernesto, impastando l’ultima parola con il massimo del disprezzo che la sua voce poteva esprimere. La vostra scelta di classe è tutta ideologica, sovrastrutturale; io invece lo faccio perché corrisponde ai miei bisogni materiali.

Offesi nel vivo, Ugo e io ci tenevamo a dimostrare che la nostra militanza non era una cosa da boy scout, e che la nostra estrazione, rispettivamente medio e piccolo-borghese, non contraddiceva il sentirci profondamente rivoluzionari.

Cosa vorresti dire, gli urlai, che Lenin era un cattolico, od un inaffidabile, solo perché non era di origine proletaria?!

Ma in cuor mio neppure io sapevo esattamente che cosa mi avesse spinto a divenire simpatizzante di quella specifica organizzazione extraparlamentare, al contrario di Ugo che dimostrava una inossidabile sicurezza nelle proprie scelte, e nel corso delle nostre lunghe chiacchierate notturne riusciva a trovare sempre validi argomenti per rinforzare il mio credo.

A distanza di tanti anni potrei rassicurare Ernesto che, effettivamente, se per Ugo schierarsi dalla parte dei deboli e degli oppressi era frutto solo di un’adesione ideale – parola all’epoca impronunziabile – io ero motivato, anche, da un’assai più meschina invidia di classe. Mi si presentava un’occasione che i miei genitori non avrebbero neppure potuto immaginare, tutti presi ad imitare i signori veri, ma continuando a conservare nel nylon i divani dell’inaccessibile salotto. Noi i borghesi li avremmo spazzati via, con la loro puzza sotto il naso, i loro bei vestiti, le loro macchinone, il loro bridge, il loro circolo dei Lions, le loro bellissime donne sceme che non si accorgevano nemmeno della mia esistenza.

Ci iscrivemmo insieme a scienze politiche e trovammo un piccolo appartamento da dividere con altri due amici.

Io avevo nei confronti della grande città che ci ospitava, e dei compagni che la abitavano, un inconfessato complesso di inferiorità. Pensavo che lì le cose importanti erano state vissute davvero, e non solo attraverso i giornali, la televisione e le chiacchiere da bar. Ugo invece aveva avuto da subito un atteggiamento più disincantato, meno provinciale. Proprio per questo, forse, si inserì con più facilità, perse prima la fisionomia del fuori-sede, si rifiutò di rientrare tutte le domeniche con il valigione carico di odorose vettovaglie e si radicò perfettamente nella realtà politica e culturale della città.

Di quei primi anni di politica ricordo le interminabili riunioni, l’odore del ciclostile e della colla da attacchinaggio, le piccole manifestazioni cittadine, le grandi manifestazioni nazionali, la repressione, le manifestazioni contro la repressione, gli slogan, le canzoni di lotta, i treni per Reggio Calabria di Giovanna Marini con relativa pelle d’oca, i poster appesi nella mia camera.

Mia madre che mi chiedeva di togliere quello con il fotomontaggio del commissario trascinato da un corteo operaio con un cartello al collo, e, sotto, la scritta ti suicideremo. Io che ottenni di conservare l’altro tutto rosso con la camionetta dei carruba in fiamme con la scritta solo la violenza rivoluzionaria è giusta perché il suo fine è abolire ogni altra violenza.

Oggi è difficile capire come persone sostanzialmente pacifiche e bonarie, come ritengo di essere sempre stato io, potessero accettare certi toni. E pensare che gli eccessi e le esagerazioni in genere mi irritavano già allora. Forse mi rifugiavo dietro il concetto, per me molto astratto, della necessità storica della violenza rivoluzionaria.

Può sembrare strano, ma faccio persino fatica a ricordare il nome della ragazza con cui ebbi il primo rapporto completo. Forse perchè, con lei, fu anche l’ultimo.

La baciai a lungo, e ci rotolammo sul letto togliendoci i vestiti. Notai che aveva un reggiseno aperto in modo da lasciare spuntare i capezzoli. Volle tenerlo, e mi spiegò che serviva per sembrare senza quando indossava una camicetta o qualcos’altro. Pensai che fosse un po’ porca.

La accarezzai dove mi avevano detto, come mi avevano insegnato. Poco dopo lei, con destrezza, prese in mano il mio coso e se lo mise dentro.

Sentii un piacevolissimo caldo avvolgente. Non nascose un gesto di stizza quando, pochi secondi dopo, venni. Mi chiese solo allora se era la prima volta. Non avevo motivo di mentire, e lo ammisi.

La mattina dopo ci svegliammo e io accesi subito la radio per sentire i risultati delle elezioni.

Il Manifesto aveva preso una manciata di voti: non sarebbe arrivato a mezzo milione, e il candidato della nuova sinistra, Pietro Valpreda, non era stato eletto. Di fronte alla mia disperazione, la sua indifferenza. Pensai che non sarei andato più a letto con una non compagna.

Essere comunisti allora. È difficile spiegarlo oggi. Fu un’avventura collettiva, per la quale si era disposti a giocarci tutto. Sembrava che la Società così come ci era stata tramandata dalle generazioni che ci avevano preceduto, potesse essere radicalmente e rapidamente trasformata, i suoi valori ipocriti capovolti: quelli che erano dalla tua parte, i compagni, erano parte di te, prefiguravano – o almeno così ci si illudeva che fosse – come te, nel loro quotidiano, il mondo del domani. Erano molto più che complici o alleati. Forse anche più che amici. E l’eskimo e la lunga sciarpa rossa erano anche un modo per riconoscersi in un mondo ancora popolato in prevalenza da fighetti. Quando incontravi un compagno in treno, in una città diversa dalla tua, o magari all’estero – e lo riconoscevi per quello strano sguardo particolare, come diceva una canzone di Paolo Pietrangeli – non bisognava dirsi niente: la comunione di sentimenti era implicita, e la fiducia cieca. Mi è capitato di lasciare in casa mia persone mai conosciute prima, senza il minimo timore che mi potessero derubare. Avevamo delle case aperte. Ora ci stiamo barricati dentro, e non apriamo nemmeno al letturista del gas.

Incontrai Francesca ad un esame, al secondo anno di università. Abitavo in un tugurio diverso da quello dell’anno prima, sempre con tre compagni, Ugo compreso, nei vicoli della città vecchia. Il bagno, a cui si accedeva attraversando la cucina, era composto da un minuscolo lavandino con la sola acqua fredda, la tazza del water, e una doccia appesa al soffitto che cadeva direttamente sul pavimento, leggermente ad imbuto. Allargando le braccia potevi toccare tutte e quattro le pareti.

Le stanze da letto erano due: la prima – dove dormivamo Ugo e io, e dove era collocata l’unica stufa – era anche la sala; alla seconda si accedeva dalla prima, ed era stata riservata agli altri due che, avendo la compagna fissa, necessitavano di maggiore privacy, previo accordo che in caso di bisogno la avremmo potuto utilizzare anche noi. Ed Ugo non perdeva occasione per dare applicazione all’accordo.

Francesca capitò in casa per preparare un esame, e rimase affascinata dal degrado abitativo. Lei, compagna di buona famiglia, che di giorno faceva la rivoluzione ma la sera tornava a dormire nella bella casa dei genitori, finalmente entrava in contatto con il proletariato vero. Che sarei stato io. Non colsi, allora, perfettamente la situazione, e anzi mi vergognavo un po’ di certe miserie di noi fuori-sede con poche lire in tasca.

Una sera, mentre stavamo studiando soli in casa, trovai il coraggio di baciarla, e non mi respinse. Varcai trionfante la soglia della seconda stanza, ove ci rinchiudemmo per due ore nel corso delle quali provai la gioia assoluta.

Dopo un po’ sentimmo dei rumori in casa: erano entrati una decina di compagni, che cominciarono una riunione nell’altra stanza. Provavamo un certo disagio ad uscire, ma ad un certo punto, dovendo Francesca rientrare a casa, aprimmo la porta, tra l’apparente indifferenza dei presenti: non riuscii a nascondere un sorriso di complice compiacimento e di falso imbarazzo quando i miei occhi incontrarono quelli di Ugo.

La nostra storia fu intensa, ma breve. Appena pensai di potermi prendere un po’ di confidenza cominciai a sfogarmi, e a confidarle che mi sarebbe piaciuto avere i termosifoni, un bidè, una macchina invece della bicicletta. In realtà io, che vero proletario non ero, cominciavo a rendermi conto dell’importanza di alcuni beni materiali, e questo mi avvicinava alla «classe», ma mi allontanava da Francesca, giacché il mio fascino si basava tutto proprio sulla mia diversità.

Ritornò ad essere la terza donna di un leader del suo gruppo, che la trattava con distacco e sufficienza e le diceva sempre che la sua personalità era piatta come uno specchio: ma lei lo amava proprio per questo suo strapazzarla. Credetti, allora, di cominciare a conoscere le donne.

Negli anni che seguirono mi allontanai dalla politica attiva, e quindi anche da Ugo, con cui non vivevo più, che continuava ad essere un militante a tempo pieno. Rimasi un cane sciolto simpatizzante dell’extra-sinistra, con tendenziale scivolamento a destra, tra le braccia del Partito. Condivisi le gioie e le illusioni maturate verso la metà degli anni settanta, quando le forze progressiste vinsero due referendum molto importanti. Poco dopo un italiano su tre avrebbe votato comunista.

In quel periodo mi dedicai, prevalentemente, a fantasticare l’Incontro, quello con la i maiuscola, e lo facevo, lo confesso, anche nei periodi in cui ero accoppiato. Questo perché, e lo dico a mia parziale discolpa, avevo compagne che, per dirla con Francesco Guccini, erano molto, anche se non abbastanza.

Amavo le donne oltre misura: quando giravo per le strade ero letteralmente stordito dalle tante che corrispondevano ai miei requisiti estetici. Non tolleravo il loro ignorarmi, avrei voluto fermarle, gridare loro che esistevo. Sognavo che mi sorridessero e mi dicessero che sì, ero proprio io quello che anche loro da sempre stavano cercando. Quando poi mi guardavo allo specchio, la mattina, mi ricalavo nella realtà, imponendomi un atteggiamento più razionale, ma poi fuori questa ansia mi ricominciava a turbinare nella testa, specie in primavera e in estate. Era in assoluto la cosa più importante del mondo. Per conquistare una sconosciuta avrei potuto calpestare gli affetti più cari, commettere qualsiasi delitto.

I delitti li avrei commessi soprattutto nei confronti di quelli belli e famosi. Secondo i principi che regolano tutte le leggi della natura e dell’economia, le belle donne non erano affatto patrimonio egualitario di tutti, ma tendevano ad essere monopolio di pochi, che conseguentemente potevano permettersi anche di farne spreco. Dato che a me piacevano quelle con i jeans, i capelli lunghi e i maglioni larghi, il mio territorio di caccia era abbastanza circoscritto. Lì, peraltro, imperavano dei vecchi leoni che lasciavano ben poco spazio agli altri predatori, costretti a spolpare i loro avanzi, quando c’erano. Cominciavo per la prima volta a provare sentimenti di invidia anche nei confronti di Ugo, ormai leader conosciuto e riconosciuto come tale nell’area delle compagne, ancora non emancipate dal femminismo. Odiavo che tutte lo salutassero sempre con quegli ipocriti bacetti sulla bocca, con quegli affettuosissimi abbracci anche se non si conoscevano quasi per niente.

Quando quella sera salii sul treno, iniziai, come al solito, ad attraversare tutti gli scompartimenti alla ricerca della ragazza più bella. Scelsi un obiettivo, e cominciai a mettere in atto la solita strategia, ottenendo il consueto risultato fallimentare. Solo dopo un po’ mi accorsi che la ragazza con la faccia pulita seduta a fianco della bellona, terminato di leggere il libro, aveva estratto dalla sua borsa un quotidiano dai titoli rossi. Più la osservavo, più mi piaceva. Fu con apparente naturalezza che le chiesi di prestarmi il giornale, tanto per comunicarle la mia affinità politica. Finsi di leggere qualche articolo mal scritto, e riuscii a trovare un pretesto per attaccare discorso. Finimmo a letto quella sera stessa, quasi senza che me ne rendessi conto. Pensavo fosse solo una piacevole avventura, e invece avevo incontrato Laura.

Ugo mi cercò all’inizio dell’estate, dopo mesi e mesi che non ci si sentiva. Si era liberato un posto in una macchina diretta in Portogallo, e mi proponeva di coprirlo: era l’anno della rivoluzione dei garofani, e bisognava assolutamente esserci, con la storia. Laura per quell’estate aveva già programmato di andare in Grecia con le sue amiche, per cui aderii all’invito.

Oltre alla storia, a Lisbona si potevano incontrare praticamente solo compagni italiani, che avevano a loro completa disposizione una grande villa, probabilmente espropriata, dove si tenevano riunioni quotidiane.

Fuori si viveva, effettivamente, un’esperienza straordinaria. I muri della città erano tappezzati da scritte rivoluzionarie e manifesti naïf coloratissimi con disegni di bambini, fucili, fiori, soldati, bandiere rosse, slogan accattivanti. Per le strade militari e civili che discutevano in continuazione di politica, cortei di militari con i pugni chiusi e i capelli lunghi che venivano applauditi e abbracciati dalla popolazione, assemblee, eccetera. Nonostante tutto ciò rimanevo un po’ scettico. Mi sembrava che riproducessero errori già visti e conosciuti, e che le diverse forze della sinistra fossero più preoccupate di combattersi tra loro che di fronteggiare un nemico ritenuto, un po’ troppo in fretta, definitivamente sconfitto.

Al contrario, Ugo era entusiasta.

Ti rendi conto che stiamo vivendo una rivoluzione in diretta? mi diceva. Nonostante avesse continuato a fare politica attiva, in cuor suo si era probabilmente rassegnato al fatto che in Italia lui la rivoluzione non l’avrebbe vista. Quella russa e quella cinese le conosceva a memoria per averle studiate, ma erano eventi troppo lontani, e comunque erano ambedue degenerate, producendo forme di stato in cui non si riconosceva. Quella cubana non l’aveva vissuta in prima persona perché allora frequentava la scuola elementare.

Lì, invece, avevano rovesciato un dittatore praticamente senza spargimento di sangue, e i giovani colonnelli che avevano preso il potere avevano riscontrato nella popolazione una tale voglia di cambiare che si erano potuti permettere di attuare, senza dissensi significativi, programmi di radicali riforme, come quella che eliminava il latifondo dando le terre ai contadini. Insomma, tutto quello in cui aveva (avevamo?) creduto stava diventando realtà, in Europa, a pochi chilometri da casa nostra. Era quindi stupido andare a cercare il pelo nell’uovo, fissarsi su alcune ingenuità e qualche settarismo che comunque caratterizzavano ogni fase rivoluzionaria. Al ritorno in Italia non cercai più Ugo, lui non cercò me, e per quasi due anni i nostri incontri furono solo fortuiti.

L’anno seguente mi laureai. Schivato il militare grazie ad piccolo soffio al cuore, tramite uno zio di Laura ottenni facilmente un posto in banca. Prima del colloquio tagliai i capelli che mi arrivavano alle spalle, mi misi una giacca e, per la prima volta in vita, una cravatta.

L’ambiente di lavoro era terribile: il capo-ufficio un fascista, e i colleghi dei servi fedeli. Riuscii a tenere per me le mie idee, e a convincermi che in fondo potevo vivere la mia vita vera dopo timbrato il cartellino.

Proprio mentre io uscivo dall’Università, ci rientrava la politica. Dopo un inverno di gioiose occupazioni delle facoltà universitarie la primavera portò la morte di un ragazzo, ucciso dai carabinieri.

Esplose il movimento del settantasette, e Ugo ne fu uno dei protagonisti.

La telefonata di Ugo era del tutto inattesa, ma non per questo fu meno gradita. Aveva bisogno di dormire in un posto sicuro, perché stavano arrestando le persone più esposte.

Fui felice di ospitarlo, e Laura non ebbe nulla da obiettare.

Il fatto che avesse cercato me stava a confermare che mi aveva scelto tra tanti, e a ciò attribuivo un significato importante, al di là dei proverbiali luoghi comuni sull’amicizia e le situazioni di bisogno.

Fu una strana forma di pseudo-latitanza, la sua. Partecipava a riunioni e manifestazioni pubbliche, nelle quali se lo avessero fermato si sarebbe scatenata una rivolta popolare. La sera, facendo strani giri per seminare eventuali pedinatori, si rifugiava nella nostra casa.

Andai solo ad una delle tantissime assemblee che si tennero in quel periodo. C’era una rincorsa a chi faceva il discorso più estremo. Anche l’intervento di Ugo, peraltro più ragionevole di quelli che lo avevano preceduto, risentiva del clima che si respirava, e del dolore provocato dalla morte di un amico.

La situazione degenerò. I fautori della lotta armata, non trovando comunque nel movimento un consenso di massa, andarono avanti per la loro strada. Gli altri, ognuno per la propria.

Degli anni ottanta non ho neanche voglia di parlare. Sono riuscito, siamo riusciti, a sopravvivere con Giorgio Gaber e Nanni Moretti, ridendoci addosso (chissà perché, però, ridevano anche gli altri).

Ugo divenne un giornalista affermato e si ributtò in politica. Ci vedevamo sempre più di rado, ma quando ciò occasionalmente avveniva riuscivamo comunque a ritrovare la stessa lunghezza d’onda, a sintetizzare sommari bilanci consuntivi degli ultimi periodi trascorsi, ad abbozzarne di preventivi, sui progetti futuri.

Inoltre io potevo confrontarmi con le sue idee leggendo i suoi articoli. Era un contatto per me molto importante, anche se unilaterale. Mi era di conforto verificare che, di fondo, continuavamo ad avere opinioni simili sulle cose importanti che accadevano nel mondo, anche se lui trovava molto meglio di me le parole per argomentarle.

Lo consideravo ancora il mio migliore amico, migliore di tanti che incontravo anche tutti i giorni. Amavo pensare che i rapporti di valore non si misurassero con il metro della assiduità di frequentazione.

Quanto a Laura, dopo i primi anni che cercammo di fare un figlio senza riuscirci, ci eravamo adattati all’idea di restare in due. Poi, improvvisamente, l’arrivo – gradito – di Giulia, l’anno prima.

LAURA

Era settembre, e avevo ascoltato appena il giorno prima alla Festa nazionale il concerto di un gruppo sud-americano allora sconosciuto. Mi erano piaciuti molto: la musica andina non era ancora divenuta una noia mortale. La notizia del colpo di stato fu come un cazzotto nello stomaco, e pensai subito a quei compagni, condannati all’esilio per chissà quanto tempo. Mi sentivo profondamente solidale con loro, e con tutti i popoli oppressi.

Nel paese dove ero nata avevamo costituito il C.C.P., circolo di controcultura popolare, e organizzavamo iniziative per cercare di coinvolgere la gente, che però conoscendoci tutti fin da quando eravamo bambini, non ci prendeva molto sul serio. Riuscimmo comunque a fare qualcosa di buono, e con la collaborazione del vice parroco – un prete operaio che ci mise a disposizione il teatrino della chiesa – organizzammo uno spettacolo con Dario Fo, al quale partecipò, ignaro di cosa avrebbe visto, tutto il paese. Il prete fu subito trasferito, ma la gente si divertì molto.

Serbo un ricordo piacevolissimo del periodo universitario, anche se per mantenermi dovetti fare i mestieri più assurdi e precari, dall’addetta alle pulizie negli asili comunali all’operaia stagionale negli zuccherifici o nei campi a raccogliere la frutta.

Tu da che parte stai, si domanda Francesco De Gregori oggi, dalla parte di quelli che rubano nei supermercati, o da quella di chi li costruisce, rubando? Io, allora, stavo decisamente da quella di chi rubava il cibo nei supermercati e i libri da Feltrinelli, senza provare il minimo scrupolo morale. Qualcuno li chiamava espropri proletari: certo è che venivano praticati da tutti quelli che si trovavano nelle mie condizioni. Li consideravamo un gesto politico.

Conobbi Andrea in treno, appena iscritta al secondo anno.

Mi sembrò un incontro molto naturale: apprezzai subito la sua semplicità e il suo entusiasmo, e si creò un’atmosfera di grande confidenza e complicità. Mi sembrò logico farci l’amore la sera stessa, anche se non rientrava tra le mie consuetudini andare a letto con il primo venuto, contrariamente a quanto lui pensò.

Comunque all’epoca fare sesso non era così problematico come oggi. Ricordo che stavamo insieme da pochi mesi quando lui andò in Portogallo e io in Grecia con Vittoria e Pina: zaino, sacco a pelo, gonne a fiori, zoccoli, capelli lunghi e libertà. Si cominciava a fare nudismo, e tutto sembrava bello e disinvolto. La sorellanza non ci impediva di farci delle storie con degli uomini, ma tanto per poterne parlare la sera tra di noi, e riderne come avevano fatto loro, i maschi, nel corso dei secoli.

Non mi ponevo problemi di fedeltà nei confronti di Andrea, anche perché la fedeltà non era una virtù, ma una convenzione borghese.

Tornati dai rispettivi viaggi il nostro rapporto sembrò rafforzarsi. Sempre più spesso ci fermavamo a dormire l’una nella casa dell’altro, ma nessuno voleva rinunciare al proprio appartamento, per cui duplicavamo gli spazzolini da denti e qualche cambio per l’emergenza. Trovavo i suoi compagni di appartamento allucinanti, con la loro cassa comune e la rigida ripartizione dei compiti e delle spese. Ce n’era uno – detto Fidel, per una sua recente conversione agli ideali rivoluzionari finalizzata alla frequentazione notturna delle compagne nelle università occupate – che aveva l’incarico di fare la spesa e cucinare, in cambio dell’esonero dal turno dei piatti. Ricordo che nella sua mania di economizzare ritornava a casa con carni strane come cuore, fegato, persino polmone, che cucinava in modo elaborato e serviva in porzioni perfettamente uguali. Gli altri tre avevano il compito di lavare i piatti a turno, annotando la mansione eseguita nel foglio appeso di fianco al lavello, e di fare le pulizie di casa, una volta alla settimana, sempre a turno e sempre con relativa annotazione nel foglio appeso sulla caldaia del bagno.

Vittoria e io facevamo una vita più tranquilla, nella nostra casetta di periferia. Lei era tutta canzoni di Bob Dylan, mito di Kerouac, profumo di patchouli, alimentazione macrobiotica, profezie de I King, canne. Il suo uomo, Alvise, studiava in un’altra città, e quando c’era leggeva Rimbaud, Baudelaire e suonava la chitarra cantando la sua rabbia con una voce dolcissima. Fu il primo uomo, tra quelli che conoscevo, a mettere l’orecchino – come un pirata, diceva lui – e a quel tempo fece molto scandalo.

Io ero un po’ più impegnata politicamente, anche se cominciavo a stancarmi del gruppo in cui militavo e ad interessarmi del femminismo nascente della seconda generazione, composto da compagne che mettevano in discussione il loro ruolo nelle organizzazioni politiche.

Vittoria non ebbe niente da ridire del fatto che la presenza di Andrea in casa si fosse fatta più assidua, anche se avevo l’impressione che non le piacesse molto, e Alvise non riusciva a nascondere sguardi di disprezzo per la sua «normalità.»

In realtà io ero molto più simile ad Andrea che a loro. Forse perché non mi ero mai potuta permettere di viaggiare per mesi e di svernare in oriente, provavo sentimenti contrastanti per il loro mondo: all’ attrazione per l’atmosfera di libertà e trasgressione che sembrava caratterizzare le loro vite si accompagnava una certa dose di diffidenza.

Per Vittoria ed il suo giro di amici era un gioco da giocare finché erano ragazzi, una fuga, completamente fuori dal minimo impegno sociale. Il solido senso pratico di Andrea mi dava una prospettiva più rassicurante, anche se questo non toglieva niente alla mia amicizia per Vittoria.

Quando lei però si trasferì definitivamente, la casa restò a nostra completa disposizione e ci ritrovammo molto giovani a convivere come fossimo sposati, quasi senza accorgercene.

Feci parte delle ronde femminili che organizzarono la vigilanza, nel carnevale del ’77, nel centro della città, proteggendo le donne dai consueti scherzi e dalle aggressioni da parte delle bande di ragazzi e ragazzini. Ci togliemmo qualche soddisfazione concreta, dopo tanta autocoscienza.

Il mio rapporto con Andrea mi poneva a volte dei problemi con le compagne più intransigenti sul separatismo sessuale, ma in genere c’era una grande tolleranza reciproca per le scelte individuali di ciascuna di noi, e nessuna delle mie amiche più care mi ha mai criticato.

Vivemmo di poco per tanti anni, e ci volemmo molto bene. Avevamo interessi comuni, amavamo andare al cinema e leggere libri.

Poi, a poco a poco, capitò anche a noi quello che succede alla maggior parte delle coppie che convivono: le abitudini hanno il sopravvento, si parla sempre di meno delle cose importanti e sempre di più del quotidiano, si perde il gusto di ridere insieme e di sedursi.

La maternità non rafforzò affatto il mio rapporto di coppia. Con Giulia me la cavai bene, ma ben presto si fecero sentire i

problemi organizzativi legati alla mancanza di nonni in città, altra sfiga degli immigrati ex fuori-sede. E i primi mesi furono molto pesanti per me: non è che Andrea non facesse niente, e anzi la notte restava sveglio anche lui ogni volta che la bambina – praticamente sempre – forse già in preda agli incubi, si svegliava urlando e non si calmava neppure con i biberon di camomilla. Poi la mattina a lui capitava di addormentarsi in ufficio. Comunque il grosso del lavoro ricadeva sulle mie spalle, e le tensioni accumulate in quel periodo hanno messo a dura prova il nostro rapporto, segnandolo irreparabilmente.

Con mio marito oggi ho un rapporto di tenera amicizia, quando non litighiamo, ma l’amore lo abbiamo messo in soffitta, e quello rimasto in casa converge tutto su Giulia.

UGO

Mio padre era un medico di fama, colto, intelligente, laico. Ha cresciuto me e mio fratello fornendoci tutti gli strumenti per capire il mondo e sopravviverci, tranne quello per liberarci di una personalità così ingombrante. Cominciai a contrappormi a lui da piccolo, pretendendo, all’età di dodici anni, di essere battezzato per poter fare la prima comunione e servire messa da chierichetto. In seguito la storia mi avrebbe fornito occasioni di contrasto più gloriose.

Il primo giorno di liceo maledissi i miei genitori per avermi fatto mettere i pantaloni corti. La maggior parte degli altri compagni di classe li portava lunghi, e mi sembrava che tutte le ragazze mi guardassero sogghignando. Mi trovai di banco con un altro che, come me, non dimostrava più di tredici anni, e così nacque l’amicizia con Andrea.

In realtà non fu mai un rapporto equilibrato, non tanto perché lo battevo sempre a scacchi, quanto perché lui tendeva ad essere un po’ subalterno. Poi non condivideva mai fino in fondo le mie passioni e non era mai del tutto convinto di quello che faceva, trovando sempre il modo di partecipare agli avvenimenti con riserva.

Basti pensare alla politica: per anni è venuto alle riunioni del nostro gruppo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, ma si è sempre rifiutato di fare il passaggio da semplice simpatizzante a militante. Ed anche in seguito, quando si è avvicinato al Partito, è sempre rimasto un po’ alla finestra, e credo non abbia mai preso la tessera. Io lo considero un modo di non assumersi le proprie responsabilità.

Di quel primo periodo di politica, che ho comunque vissuto con profonda intensità, non serbo ricordi particolarmente positivi dal punto di vista dei rapporti umani. Il materialismo storico dialettico, così come lo interpretavamo, ci imponeva analisi scientifiche, lucide e fredde, senza spazio per i sentimenti.

La contrapposizione alla borghesia mi permetteva comunque di dare una valenza sociale al mio conflitto individual-familiare, e mi consentiva di attribuire a mio padre, che restava un borghese illuminato, tutte le colpe delle ingiustizie di questo mondo.

Con l’università riuscii ad abbandonare quella piccola-città-bastardo-posto e a tagliare i ponti con il passato. Anche in questo Andrea era diverso: non riusciva mai a chiudersi le porte alle spalle, ad iniziare periodi nuovi guardando solo al domani. Faceva sempre due passi avanti e uno indietro. O forse aveva solo radici più forti delle mie. Comunque io mi ambientai subito nella nuova città, trovai un mare aperto dove sapevo nuotare bene, che mi attirava molto di più della piccola laguna da cui provenivo.

Dopo aver invano cercato, per i primi due o tre anni, di coordinare il mio gruppo con altri di simile ispirazione, abbandonai l’impresa, non tanto per una crisi ideologica, quanto perché ero stufo di stare in un’organizzazione di sapientoni in perenne minoranza.

Passai ad una vera organizzazione di massa, che oggi posso dire formata, almeno qui, da due anime: c’erano i compagni sottoproletari, che venivano dai quartieri periferici, e gli intellettuali convertiti, che venivano dal liceo. Solo i secondi sarebbero usciti del tutto indenni dalle sconfitte degli anni seguenti. Mio padre diceva, e non aveva tutti i torti, che i ricchi anche quando si buttano hanno sempre il paracadute.

Nell’inverno del ’76 ci furono le prime autoriduzioni.

In quattro o cinque compagni ci recavamo ben vestiti nei santuari della borghesia, cioè nei migliori ristoranti. Dopo esserci rimpinzati abbondantemente, comunicavamo al ristoratore che si trovava di fronte ad un’azione politica, e che quindi avremmo pagato il conto con cinquecento lire. A volte l’operazione avveniva con minore dignità politica, specie dopo i primi episodi che avevano messo in allarme tutte le potenziali vittime: poteva infatti accadere che i compagni-avventori si precipitassero di corsa verso l’uscita, lasciando poco spazio al messaggio politico che intendevano trasmettere. Quando poi venivamo fermati, tenevamo duro fino al processo, che si concludeva con il semplice pagamento del conto: l’insolvenza fraudolenta è infatti – come i legali del movimento ci avevano sempre garantito – l’unico reato che si estingue con l’adempimento.

Nel febbraio del ’77 tutte le facoltà furono occupate da universitari e non, e io capii subito che si trattava di occupazioni diverse da quelle che periodicamente, negli anni passati, ogni tanto si cercava di provocare. Erano caratterizzate da una componente di creatività veramente inedita: ovunque, giorno e notte, pièces teatrali e piccoli concerti spontanei si alternavano a cortei, riunioni e assemblee, in cui si parlava una lingua veramente nuova.

Oggi è un buon giorno per morire. Dopo molte lune ci siamo incontrati con i capi bianchi. Il Santino mezza chioma bianca e il Castellano del Giuridico hanno parlato con lingua biforcuta: parole di vento. Il sergente Rover O’Hara ha parlato come lo sciacallo del deserto, ma i suoi ululati non hanno toccato i nostri cuori. Hanno tentato di venderci acqua di fuoco per spezzare l’unità del popolo degli uomini. Vorrebbero tenerci ancora nelle riserve e sacrificarci. Le rinnegate guide indiane cercano di condurci sulla pista che porta alla civiltà degli uomini bianchi. Ma la loro civiltà è un deserto di uomini che hanno chiamato democrazia e progresso. Ma l’uomo rosso è saggio e ascolta solo la voce del cuore. Il nostro cuore è spezzato dall’odio e la nostra rabbia è grande. Il popolo degli uomini si è riunito sulla collina del giuridico attorno al feticcio rosa smascherato dell’uomo bianco. Abbiamo danzato a lungo, abbiamo innalzato i nostri canti a Vacattanca: dissotterriamo di nuovo l’ascia di guerra, dipingiamo i nostri visi con i colori della guerra. Ci prepariamo a cavalcare contro i raduni dei visi pallidi. I guerrieri sono già sulle piste degli sciacalli. Orneremo i nostri bastoni da colpi con gli scalpi dei rinnegati. Bruceremo i carri dei venditori di acqua di fuoco. Ci vogliono mettere nelle riserve di Fort Cicu sotto il controllo dell’uomo bianco. Noi metteremo l’uomo bianco sotto il controllo del popolo degli uomini. Al sorgere del nuovo sole cavalcheremo alla conquista di Fort Cicu e del ranch Spisa. Le verdi praterie sono del popolo degli uomini e noi le vogliamo tenere. Non vogliamo più che l’uomo bianco vada alla caccia dei nostri bisonti, invadendo le nostre praterie. Vogliamo tutti i fucili e le munizioni per il popolo degli uomini. Niente metallo lucente ai padroni dell’impero romano e ai cacciatori solitari. Vogliamo il metallo lucente per la nostra tribù e la tribù dei precari e le altre tribù della prateria.

I nostri tamburi rulleranno tutta la notte nell’oscurità, il nuovo sole vedrà i Forti e le praterie ancora in mano agli uomini rossi. Fino a che la pioggia cadrà dal cielo, fino a che l’alba spunterà sulle praterie, fino a che il vento giocherà con i nostri capelli e il sole brillerà sui nostri volti; fino a che rimarrà un solo uomo rosso, i visi pallidi dovranno tremare di paura [1].

L’11 marzo fu ucciso Francesco: gli spararono alle spalle mentre scappava. Aveva la mia stessa età, ma a differenza di me sarebbe rimasto per sempre un ragazzo di venticinque anni.

Il gioco si trasformò in tragedia: dopo la sua morte il popolo degli uomini si prese il metallo lucente, ma non vinse l’uomo bianco.

E i carri dei venditori di acqua di fuoco non furono mai bruciati.

Vi furono scontri con la polizia di una durezza senza precedenti, vetrine dei negozi in pezzi, l’occupazione della stazione ferroviaria, il saccheggio di un’armeria e di un ristorante, barricate, un pianoforte che suonava in mezzo alla strada, auto in fiamme, carri blindati nel quartiere universitario contro i sassi degli studenti, l’assedio armato della polizia ad una radio libera. La gente comune si spaventò, i partiti della sinistra che governavano la città e i sindacati si contrapposero al Movimento, e vi fu un’assoluta incomprensione reciproca per lunghi mesi. Per noi non era troppo importante che ci capissero: vivevamo un’esperienza unica e autorassicurante. Claudio Lolli cantò la nostra felicità di zingari; il legame che ci univa in quel momento era così forte che credevamo, semplicemente, che avremmo rovesciato il mondo.

E intanto la polizia iniziava ad arrestare quelli che riteneva i promotori delle agitazioni.

Pensai di rendere più difficile l’evento per prima cosa non dormendo in casa, dal momento che gli arresti degli altri compagni erano avvenuti, con i mitra spianati, nelle prime ore del mattino. Dovevo chiedere aiuto a qualcuno di cui fidarmi, e nello stesso tempo non facesse parte del mio ristretto gruppo di amici, tutti coinvolti negli avvenimenti di quei giorni. Il pensiero andò subito ad Andrea: a quelli della polizia politica, pensai, non verrà certo in mente di cercarmi nella casa di un insospettabile impiegato di banca, completamente fuori dal giro da un sacco di anni!

Anche se dormii sotto lo stesso tetto di Laura per alcune settimane in realtà furono poche le occasioni di approfondire la sua conoscenza: io rientravo in casa quasi sempre a notte fonda, e scambiavo poche battute prevalentemente con Andrea, le rare volte che lo incontravo. Avevo l’impressione che Laura avesse un atteggiamento di sufficienza nei confronti della notorietà che avevo recentemente acquisito.

Nei mesi che seguirono vi furono tantissime assemblee del Movimento con i cinema traboccanti di gente, una moltitudine di ragazzi sempre fuori e dentro l’università, per le strade, nelle piazze e nelle osterie a parlare della loro rivoluzione.

Una sera proprio in osteria, dopo il convegno di settembre, sentii due personaggi minacciare un compagno di fare la fine di un altro compagno, che avevo sempre creduto ucciso dai fascisti. Non ho mai voluto sapere se mi trovavo di fronte a dei buffoni, o se davvero quegli individui fossero a conoscenza di terribili segreti: trovavo rivoltante essere solo attraversato dal sospetto che qualcuno potesse, oggi, essere eliminato dai suoi solo perché sapeva troppo.

Sentivo il bisogno di ossigenarmi le idee e lo spirito, e cercai un po’ di pace al centro dell’America latina. Vicino al confine tra il Perù e la Bolivia, in mezzo alle ande, a 3.900 metri sul livello del mare, c’è un grande lago, il Titicaca. Lì, in un’isola chiamata Taquile, un popolo mite vive il vero comunismo, conservando e tramandando da secoli, di generazione in generazione, i propri antichi costumi.

Vi arrivai con lo zaino pieno di libri in una barca di turisti che, dopo tre ore di visita, di fotografie e di acquisti nella cooperativa (l’unico posto del sud-america con i prezzi fissi) sarebbero tornati ai loro Hotel. Io ero invece intenzionato a fermarmi per un imprecisato numero di mesi. La comunità ha previsto, per questi casi, il sorteggio della persona che, dietro un modesto compenso, ospiterà il «turista» in una stanza della propria casa.

Seguii Cipriano che, mentre mi guidava camminando per i sentieri dell’isola – non esistono mezzi di trasporto diversi dai piedi – non interrompeva la principale attività in cui sono perennemente occupati gli uomini del villaggio: il lavoro a maglia. La capanna di fango a me destinata, con il tetto di paglia, aveva una porticina di accesso bassissima, e nessuna finestra, ma era estremamente pulita e decorosa. Fuori dall’uscio una brocca per lavarsi e due candele per fare luce di notte. A pranzo potevo usufruire della cucina della famiglia di Cipriano, o spingermi fino in piazza, ove in un microscopico bar servono ottime frittate con le patate fritte ai pochi turisti.

Tra questi conobbi, dopo quattro mesi di permanenza, un milanese con cui presto fraternizzai: Luciano.

Luciano era nato comunista, da padre comunista operaio-metalmeccanico-qualificato-di-terzo-livello-delegato sindacale immigrato a Milano negli anni cinquanta da un paese del sud. Iscritto alla FGCI non appena l’età glielo permise, crebbe in un ambiente in cui non esistevano dubbi su quale fosse la causa giusta per cui vivere, ed eventualmente anche per morire. Era di cuore generoso, come suo padre, e per quanto non fosse di intelligenza particolarmente brillante, studiò sempre con dedizione e testardaggine, conseguendo a scuola risultati dignitosi fino alla maturità. Suo padre avrebbe voluto che si iscrivesse all’Università, a Giurisprudenza. Gli avvocati sono sempre borghesi, gli diceva, e si mettono d’accordo tra loro, e con i giudici, perché si incontrano al circolo del tennis e in altri ambienti esclusivi. Il marchio della classe non si cancella, e un avvocato borghese non farà mai un torto ad un suo compagno di liceo, o al titolare di una ditta amico di suo padre. Noi abbiamo bisogno che qualcuno fidato, al cento per cento, studi per difendere con passione i nostri interessi.

Luciano non era del tutto convinto, e dopo il diploma era partito in viaggio per chiarirsi le idee.

È proprio vero che la lontananza aiuta a relativizzare le cose, e a rendere meno importanti piccole differenze che da vicino appaiono enormi. In Italia, specie in quel periodo, non avrei mai frequentato uno del piccì, mentre invece fu motivo di grande conforto lo scoprire, in quel posto sperduto, un compagno con cui confrontarmi sulle cose di casa nostra. Ci trovavamo d’accordo ad esaltare quel piccolo popolo che era stato capace di organizzarsi in una cooperativa per vendere i propri prodotti artigianali, che si riuniva in assemblea nella piazza del villaggio per discutere delle vicende comuni, che sembrava dividere con spirito perfettamente egualitario la dignitosa povertà che caratterizzava tutti, che era sempre calmo, sereno e sorridente. E non ci trovavamo troppo in disaccordo sulle vicende nostrane, amareggiati ambedue da brutte esperienze interne alla propria area politica.

Io allora avevo già la tessera di pubblicista, e scrivevo saltuariamente pezzi da vendere alle agenzie, che poi li smistavano a varie riviste o quotidiani. Luciano era divenuto amico di tre militanti di Sendero Luminoso e costoro gli prospettarono la possibilità di intervistare l’imprendibile capo dell’organizzazione. Decisi che era cessato il tempo della meditazione, e che riprendeva quello dell’azione, a quel tempo a me senz’altro più congeniale.

Non potevo allora sapere quanto quel soggiorno mi avesse cambiato, e, avrebbe col tempo contribuito a modificare il mio approccio nei confronti del mondo, trasformandomi in un sincero non violento.

Luciano e io, scortati dai tre senderisti, arrivammo ad Ayacucho dopo tre giorni di viaggio con una auto a nolo lungo una strada non asfaltata, resa ancora più impervia dalle piogge : da quando la città era in mano ai ribelli erano stati soppressi i voli dal Cuzco. Effettivamente Abimael Guzman aveva espresso il desiderio di parlare con giornalisti stranieri, giacché in quel periodo la stampa «di regime» attribuiva a Sendero Luminoso tutte le peggiori atrocità, che – a suo dire – quando non erano inventate di sana pianta erano state commesse proprio dall’esercito o dalla polizia peruviana.

Ci tengo, disse, a salvaguardare l’immagine del mio esercito di liberazione quantomeno in Europa, giacché nel mio Paese tutta la stampa è al servizio dell’imperialismo americano e da essa non c’è alcuna speranza di ottenere una versione dei fatti veritiera. I campesinos sono pronti a prendere le armi, e quasi tutta la sierra è sotto il nostro controllo, o comunque abitata da gente che solidarizza con noi. Finirà l’epoca dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e porteremo a termine la nostra lunga marcia, esattamente come i compagni cinesi.

L’ultimo dei maoisti sembrava sincero, aveva un legame reale con gli indios e i suoi guerriglieri non si erano ancora compromessi con il narcotraffico. Il pezzo venne bene, e riuscii a venderlo ad un noto settimanale. Decisi allora che mi sarei specializzato in «interviste difficili» in giro per il mondo.

Luciano provava per me una specie di venerazione, e mi fu compagno di avventure in altre occasioni: incontrammo guerriglieri tamil, combattenti baschi e irlandesi, palestinesi, fino a quando non riuscii ad entusiasmare il direttore della rivista per cui scrivo, che ormai mi teneva in palmo di mano e mi offrì finalmente un contratto di collaborazione fissa e continuativa.

Nel frattempo il rapporto con il mio amico si era logorato, e non riuscivo più a sopportare quel suo attaccamento eccessivo. La nostra separazione assomigliò molto a quei divorzi da partner troppo innamorati, e quindi troppo asfissianti.

All’inizio degli anni ottanta riuscii a scrollarmi di dosso l’operaismo che aveva caratterizzato il decennio precedente, che per quanto mi riguarda sicuramente trovava la sua origine in una gran coda di paglia per le mie origini borghesi.

Un episodio è stato emblematico, e ad esso attribuisco l’importanza di una pietra miliare nella mia evoluzione.

Ernesto era venuto nella nostra città per un’iniziativa politica dell’organizzazione nella quale incrollabilmente continuava a militare, e come altre volte la sera eravamo andati a bere. Ricordo che intercalava di continuo parole come voi borghesi di merda, voi giornalisti del cazzo, e io, abituato da secoli al suo linguaggio lasciavo correre, fino all’ennesimo giornalista del cazzo che mi risuonò in testa come una campana. All’improvviso mi sentii scuotere le viscere, mi alzai in piedi e in mezzo ai tavoli degli altri avventori uscì dalla mia bocca, quasi senza che me ne accorgessi, il grido catartico, liberatorio, blasfemo:

Operaio del cazzo!

Una volta liberatomi della classe operaia, o meglio dei complessi di inferiorità che essa, con la sua funzione storica, mi infliggeva, potei volare verso altri lidi, ugualmente impegnativi.

Attraverso un profondo ripensamento di tutta la mia esistenza politica, già iniziata nell’isola di Taquile, abbracciai la causa del pacifismo, e scelsi i Verdi come rappresentanza politica, anche se il loro movimento cresceva tra laceranti divisioni.

Negli anni ottanta contribuii con i miei scritti a sensibilizzare l’opinione pubblica ai temi della non violenza e dell’ambiente, anche se riconosco che fui molto aiutato dalla nube purpurea che finalmente era arrivata a minacciare l’insalata dei nostri orticelli.

Incontrai Laura ad una festa di carnevale, nel febbraio del 1987: era sola, perché Andrea era andato in montagna con amici per il week-end. Non ci vedevamo da anni, e parlammo tutta la sera.

Ero terribilmente affascinato dalla sua assoluta e sincera indifferenza per la mia notorietà, in quel periodo accresciuta da alcune apparizioni televisive. Certo, neanch’io attribuivo al successo alcuna importanza. Però avevo cominciato ad abituarmi al fatto di essere riconosciuto per strada o al ristorante, di ricevere inviti e regali, di frequentare ed essere in corrispondenza con uomini di cultura e di prestigio. Ed anche al fatto che chi si rapportava a me sapeva tutto questo, ne subiva il fascino e spesso cercava di viverne di luce riflessa. Con quel suo sorriso candido Laura mi diceva per me contano altre cose, e anche la persona più famosa del mondo se nella vita di tutti i giorni non si comporta correttamente vale meno di zero.

Finimmo la serata ad ubriacarci in osteria, e quando alle tre di notte l’oste ci cacciò fuori perché doveva chiudere ci ritrovammo nel mio letto. Non pensavo che quella prima notte avrebbe avuto un seguito. Ero stato molto bene, ma davo per scontato che per Laura, come per me, dovesse necessariamente trattarsi di un episodio isolato. Ed infatti passarono mesi senza che nessuno dei due cercasse l’altro.

Ci rivedemmo di nascosto altre due o tre volte quello stesso anno. Quando Laura rimase incinta mi feci da parte, e non la cercai più, fino a quando non la ritrovai del tutto casualmente. Era infatti accaduto che un Emirato arabo, piccolo ma pieno di petrolio, fosse stato invaso da un paese confinante. Prontamente intervennero le più grandi potenze del mondo a punire gli invasori e milioni di persone – che avevano tranquillamente ignorato fino a quel momento il livello di democrazia e di libertà esistente nel piccolo Stato, e che con pari facilità lo avrebbero ignorato negli anni a venire – si sentirono pervase da ardore di giustizieri.

Tra questi, in prima fila, tanti giornalisti che avevano lasciato sopire i loro istinti bellici per un’intera esistenza, fino a quando non fu loro offerta dalla storia l’opportunità di nobilitarli con una Giusta Causa scrivendo con passione delle calpestate libertà e descrivendo minuziosamente i misfatti dei soldati invasori (chissà perché l’esercito che poi perde la guerra riproduce sempre, esso solo, tutto il campionario delle crudeltà più perverse nei confronti di bambini, giovani donne e vecchi inermi). Peccato che non furono altrettanto diligenti nel riferire alcuni dettagli emersi alcuni mesi dopo, sulle migliaia di soldati dell’esercito dei perdenti sepolti vivi nelle loro trincee dai bulldozer nemici, o mitragliati alle spalle dagli aerei alleati mentre fuggivano disarmati.

Una simile guerra santa, evidentemente, non lasciava spazio al dubbio, e coloro che in quel periodo non si associavano al coro venivano guardati con sospetto, proprio come in tempo di guerra si fa con i disfattisti. Tra questi io, promotore del comitato per la pace, che diede vita ad inedite alleanze su un’opzione pacifista.

Ritrovai dalla mia parte – tra gli altri – vecchi e fidati compagni che da tempo avevano abbandonato la politica. Tra loro, Laura.

Riprendemmo così a vederci, molto episodicamente, in incontri caratterizzati da una grande passionalità carnale e da pochissime cose dette, anche se ambedue eravamo convinti che la nostra perfetta intesa fisica non avrebbe potuto esistere in mancanza di un sentire comune.

Ed entrambi assaporavamo il piacere dell’assenza dell’altro nei lunghi periodi in cui non ci sentivamo.

A me, in particolare, quel vale meno di zero ronzava sempre nelle orecchie tutte le volte che mi rendevo conto di stare per fare cose che Laura non avrebbe apprezzato. Le facevo ugualmente, ma innamorandomi sempre più di lei, che consideravo la mia coscienza critica.

[1] L’intervento dell’indiano metropolitano è ripreso dal volume 1977-1987, dieci anni, cento domande a cura di Giovanni Cocchi e Mirco Pieralisi

GIULIA

LU. Oggi mi porta mamma e mi viene a prendere mamma. A me mi piace di più il mio papà che lo voglio sposare. Però quando mi porta mamma non faccio i capricci, così mi compra il chinder e il gelato.

Quando arriviamo al nido chiara e micol e anche vanessa mi vengono incontro. Giovanni e enrico giocano con le ningia, eddi va sulla bicicletta e marco corre. Sono le mie amiche e i miei amici, però sono miei amici anche quelli che non stanno al nido che sono valerio, chicco e bianca.

Quando dobbiamo fare la pipì le dade ci portano nel bagno e la facciamo sedute sui vasetti piccoli dove ieri c’è caduta una tartaruga ningia di enrico. Una volta eddi ha fatto la pipì in piedi perché cià il pisellino, però io no. Ieri quando ero piccola la facevo sul pannolino. Però se qualche volta la faccio addosso è lo stesso, e mamma non mi sgrida.

Quando dobbiamo fare la pappa noi sbattiamo la forchetta sul tavolo, però quando lo faccio a casa mamma e papà si arrabbiano. Certe volte anche le dade si arrabbiano e ci dicono che siamo dei maiali e che ci mettono nei recinti.

Quando dobbiamo fare la nanna andiamo tutti nei lettini e dopo quando ci svegliamo giochiamo, facciamo la merenda e poi vengono tutti i genitori a prenderci. Oggi erano già venute le mamme di giovanni e enrico e mamma non era ancora venuta. La dada mi ha detto che forse c’era traffico. Quando viene mamma c’è sempre traffico.

Quando arriviamo a casa io voglio giocare nella mia cameretta con mamma però dopo mamma deve fare una telefonata e io non voglio e allora gli tiro il filo del telefono e lei si arrabbia e allora io gli dico che non ho fatto apposta e dopo lei ride e mi dà un bacione. Dopo però deve preparare la cena e allora io guardo un cartone fino a quando non arriva papà, e dopo facciamo la pappa e dopo mi metto il pigiama e dopo andiamo a fare la nanna. Preferisco che mi porta a letto papà, che mi racconta una storia e poi mi addormento. Però di notte c’è il lupo, e allora io mi sveglio e piango e voglio che papà mi porta a letto con loro.

MA. Al nido oggi abbiamo fatto la pizza e poi l’abbiamo mangiata. Giovanni quando eravamo in giardino ha ammazzato una formica e l’ha mangiata, come fa balù nel libro della giungla.

Poi abbiamo fatto dei giochi che bisognava riconoscere il rosso che però è facile perché il rosso è quello di colore rosso come il semaforo quando non è più verde che a me però mi sembra giallo. E a allora i piedoni possono passare e le macchine si fermano anche se qualche volta papà passa lo stesso e allora io glielo dico che non bisogna. Papà mi ha detto che le formiche non si mangiano perché non sono come la pizza e quando mi è venuto a prendere siamo andati in macchina alla ludoteca.

Quando vado in macchina con papà a lui gli piace giocare a chi vede prima le macchine che conosciamo. Noi conosciamo le cinquecento, le ventisei, le mercedes, le errequattro, i taxi, le alfaromeo e gli aubotus. Le cinquecento sono le mie macchine preferite e da grande voglio una cinquecento perché quando sono grande guido la macchina, bevo il vino, la birra, il caffè, fumo e sposo papà.

Quando vedo le mercedes io guardo se c’è il simbolo davanti e di dietro. Due simboli. Ieri ho visto un camion con un simbolo grande della mercedes. L’ho visto prima io e l’ho detto a papà che è stato felice. Ieri ho visto anche un taximercedes. Con due simboli.

Ho giocato con chicco e la sua mamma che è rosa e poi siamo andati a casa loro e poi sono arrivati anche la mia mamma e il papà di chicco e eravamo tre femmine e tre maschi e abbiamo mangiato io sul seggiolone di chicco e lui su una sedia coi cuscini ma non mangiava e rosa si è arrabbiata alla fine però abbiamo mangiato tutti il gelato. A me mi piace moltissimo il gelato e ieri che era inverno non si mangiava mai. Chicco mi piace e è un po’ fidanzato, ma meno di valerio però.

ME. Oggi al nido c’era un aubotus piccolo giallo no arancione che ci aspettava e ci ha portato a teatro dove c’era il pesce gaetano che a me mi fa molto ridere.

Quando è arrivata mamma siamo andati a casa di valerio dove c’è pina che è la mamma di valerio e doroti che però quando parla non si capisce. Anche quando parla il papà di valerio con valerio non si capisce perché parlano strano. Strano è inglese. Ieri con papà ho visto tre signori strani con la faccia scura e ho chiesto a papà se erano inglesi e lui ha riso. Io non capisco però sono contento se papà ride.

Valerio è un po’ più grande di me e qualche volta mi fa i dispetti e mi corre dietro ma io scappo veloce veloce come spidigonzales e lui non mi prende però dopo mi fa paura perché fa il verso della tigre e del lupo. Però lui è il mio fidanzato preferito e giochiamo insieme e oggi è stato buono e io sono felice.

Quando dovevamo andare a casa io non volevo e allora mamma ha detto che sono una brontolona. Io mi sono offesa perché so che brontolo è un settenano che brontola sempre.

Poi mamma ha preparato la pappa e è arrivato papà che ha detto chessemagna e mamma ha detto nasconditi e io mi sono nascosta sotto il tavolo e papà non mi trovava e diceva dove è finita la mia bambina e mamma rispondeva è rimasta al nido però dopo mi ha trovata.

Anche oggi quando sono andato a fare la nanna c’erano medusa e il lupo.

GIO. Oggi sono andata al nido in aubotus con papà che è contento e ride che dico aubotus e allora io lo dico. Era vietato andare in macchina perché dopo c’è la puzza che fa male ai bambini e allora i vigili fanno la multa. I vigili sono come le guardie dello sceriffo di nottingam però un giorno mamma mi ha detto che non sono cattivi anche se a me non mi piace se fanno la multa a papà perché la multa è come se ti sgridano e dopo gli devi dare i soldini. A me mi sembra che anche gli aubotus puzzano però i vigili non gli fanno le multe.

Al nido abbiamo fatto la lotta con i bastoni ma no grossi come quello di quel signore statua di vienna fortissimo che stava nel castello del re ciecopeppe che però ci vedeva e dava una bastonata grandissima a quattro serpenti. Io eddi e sara abbiamo fatto scappare giovanni e enrico e le dade hanno detto che non bisogna facere la lotta con i bastoni però noi non li diamo in testa ma solo sulla pancia come a spadate.

Poi mi è venuto a prendere papà e siamo andati alla còppe a fare la spesa e poi a casa e dopo è venuto sergio che è un amico di papà che quando mi ha visto ha detto quanto sei brutta e allora io ho pianto perché a me le dade mi dicono che sono bella però dopo lui ha detto che scherzava.

VE. Oggi siamo andati col pulman a fare una gita e io ero seduta vicino alla figlia di nonnamaria che si chiama giorgia. C’era un laghetto e una casetta di legno e le panchine però no le sedie e noi abbiamo fatto tanti tuffi su una piscina di palle. Poi marco si è fatto un male pazzesco che ha sbattuto la testa su un’altalena e è caduto sopra i sassolini piccoli che non mi ricordo come si chiamano e dopo sono arrivati i ragazzi arancioni dell’ambulanza e io ero molto coppucata. Poi abbiamo mangiato la pappa però no cucinata e abbiamo fatto la nanna sul prato.

Al nido mi è venuta a prendere la mamma di bianca che si chiama marcella perché mamma e papà non potevano e siamo andati a casa loro e abbiamo giocato e visto i cartoni. Uno non mi piaceva perche c’era il nulla che era un lupo cattivissimo e anche se c’era un cane volante grande mi faceva paura e allora abbiamo visto robi nud. I cartoni mi piacciono, però mi fanno paura scerecan, crudeliademon, edgar, la strega del mare e medusa che è la più cattiva di tutti. Però i cattivi alla fine perdono.

Quando è venuta mamma poi siamo andati tutti a casa nostra e papà ha portato le pizze e ce le siamo mangiate io con la mozzarella.

SA. Oggi è sabatoedomenica e non si va al nido. Quando mi sono svegliata mamma e papà ancora dormivano e io allora ho detto svegliati è primavera come dice tippete al gufo nel libro di bambi e loro hanno riso. Quando era giorno siamo partiti per cittanò.

Cittanò mi piace perché la zia clara mi regala i cioccolatini anche se è un segreto e zio michele mi porta sul trattore e nonno mi porta a vedere gli animali e giacomo mi da i suoi giochi di quando era piccolo e nonna mi porta nell’orto e mi dice tesoro.

Quando eravamo in macchina io mi sono addormentata e quando mi sono svegliata era cittanò. Anche quando andiamo a dancona io mi addormento e quando mi sveglio è dancona. Forse è una magia come quella di magomerlino.

Cittanò e dancona sono città. Le città sono cittanova che si dice cittanò, dancona, vienna, nottingam, e la nostra.

DO. Di notte ero con mamma in un negozio di giocattoli ma dopo arrivava un tirannosauro che ci voleva mangiare e allora io ho urlato aiuto papà e papà mi ha abbracciato e mi ha detto amore mio hai fatto un sogno brutto e io ho detto che io e mamma abbiamo sognato il tirannosauro però mamma non si ricordava.

Nonno mi ha portato dove c’erano le mucche, i vitelli, le caprette, le galline, i conigli e c’era un coniglietto piccolissimo che io lo volevo portare a casa però lui prende il latte dalla sua mamma. Il latte però lo fanno le mucche e io le ho accarezzate e non ho avuto paura.

Quando siamo tornati a casa papà mi ha fatto vedere un libro di giacomo con le lettere che però io non le capisco perché io conosco solo la o di ombrello che è come un cerchio e la lettera di serpente che è come un serpente.

Però papà è contento se dico e come lelefante e allora io lo dico dopo però mi stufo.

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